Esiliarsi dalla realtà, da quella che ci sta attorno e in cui ci misuriamo ogni giorno. Un esilio fatto di interiorità, di ricerca in sé stessi, partendo dai propri impulsi, in cui la speranza e tutte le false idolatrie che ci vengono propinate nella quotidianità, vengono a cadere. Esilio come rifugio nel mondo onirico, in quel lembo di vita che è impalpabile, ma che altresì racchiude un vissuto fatto di energie incontrollabili in cui pulsioni, emozioni e ricordi affiorano impetuosamente. I video di Germano Wolf ed Elena N. Ugel gettano il fruitore in un ambiente sospeso, onirico, fantastico, disgiunto dal tempo. Un’atmosfera decadente, in cui inquietudini e un sottile e fuggevole erotismo si risolvono in un’eleganza estetica che travolge il concetto di bello classico – basato su regole razionali – a favore del concetto di sublime – dominato dall’irrazionale – che nasce quando l’oggetto della nostra contemplazione trascende i limiti della nostra sensibilità rendendoci coscienti della nostra finitezza. L’occhio dell’osservatore non ha scampo: gli elementi del video, umani e non, si muovono, agiscono, come racchiusi in un’ampolla di cristallo: uno spazio angusto e spoglio allo stesso tempo, ovattato, in cui tutto pare strutturato secondo regole precise. Regole estetiche che badano al bilanciamento della composizione, a una luce radente, quella fredda di un proiettore annullatrice di colori e a una quasi staticità di base, tutti elementi che comportano una modalità percettiva vicina a quella della fotografia. La peculiarità del video, cioè quella di registrare il movimento e quindi il tempo, viene in tal modo annullata. Lo svolgimento cronologico, seppur presente allo stato embrionale, lascia il campo a una giostra di azioni-simbolo dettate da una ritualità che fa della ripetizione la sua forza. I gesti della donna si ripetono, come si ripetono le scene proiettate di film in bianco e nero e lo stesso accade per le intime melodie che avvolgono questi piccoli teatri di vita. E come a teatro, è quindi di scena la donna, il cui ruolo sembra rimesso in gioco; una donna sola, desiderosa di fare i conti con la propria interiorità, con i propri fantasmi e tutto quell’universo inconscio che si porta dietro come un bagaglio. Un percorso a ritroso dentro sé stessa durante il quale gli istinti vengono messi a nudo e con essi affiorano ansia, inquietudini, dubbi, errori commessi, sensi di colpa, paura di mettersi in gioco. Sono questi, tra gli altri, i frutti della crisi della nostra epoca postmoderna, crisi che quotidianamente tende a far vacillare la pace interiore del soggetto singolo e, nello specifico, di questa donna, figura solitaria nella quale non possiamo non identificarci. E il suo “where are we going?” ripetuto come un mantra, ne è chiosa esistenziale.
Marco Tomasini
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